Indian Creek, manuale quasi serio per perdersi e ritrovarsi

Pubblicato il 14 aprile 2025 alle ore 09:35

All’inizio ho riso. Giuro. Ho pensato: ma questo è fuori di testa. Uno studente di biologia che accetta di passare sette mesi completamente solo, in una tenda, nel bel mezzo del nulla dell’Idaho, per sorvegliare milioni di uova di pesce. Cos’è, una punizione divina? mi sono chiesta. E invece no: è Indian Creek, il racconto assurdo, divertente e profondo di un’avventura vera che comincia come un campeggio sgangherato e finisce per somigliare a un viaggio interiore.

Pete Fromm parte con una sorta di ingenuità giovanile, due scatolette di fagioli e la convinzione che l’uomo possa dominare la natura con un’accetta, un manuale di sopravvivenza e un paio di muffole. Spoiler: non è così. Ma proprio nei suoi errori, nei suoi tentativi tragicomici di accendere il fuoco, di non morire assiderato o di non impazzire parlando con i topi, c’è il cuore di questo libro.

Poi succede qualcosa. Lentamente, quasi senza accorgersene, si smette di ridere. Perché quella montagna gelida e inospitale diventa una maestra severa ma onesta. Gli insegna a stare con se stesso, ad ascoltare il silenzio, a fare pace con il vuoto. Il ritmo cambia, il respiro si fa più lento, le pagine iniziano a pesare di più, non perché siano noiose, ma perché parlano di qualcosa di vero.

E a un certo punto, mentre leggevo, mi sono ritrovata a guardare fuori dalla finestra le cime, il bosco fitto, quel silenzio familiare e ho pensato: ok Pete, forse non sei del tutto matto. Io in tenda con meno dieci gradi ci durerei due giorni scarsi (forse), ma quel bisogno di stare da soli, di fare ordine in mezzo al caos… ecco, quello lo capisco eccome.

Un libro che ti lascia addosso il profumo della legna bruciata, le mani gelate e una strana nostalgia per qualcosa che non hai mai vissuto davvero, ma che senti vicinissimo. E quando l’ho finito, ho avuto solo una certezza: la montagna, se la ascolti, non ti risparmia. Ma ti insegna.

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