Il vento conosce il mio nome, storia di ieri e di oggi

Pubblicato il 29 luglio 2025 alle ore 08:57

Parlare di Isabel Allende per me è un po’ come parlare di un’amica di vecchia data: ci vogliamo bene, ci siamo dette cose importanti ma ogni tanto non ci capiamo.
La casa degli spiriti mi ha stregata (come biasimarmi?), L’amante giapponese mi ha conquistata fin dal primo momento. Poi ci sono stati anche momenti di crisi: Il gioco di Ripper e Inés dell’anima mia sono scivolati via senza lasciarmi molto, se non con un grandissimo “meh”.

Con Il vento conosce il mio nome, però, ci siamo ritrovate. Non aspettatevi la scrittura magica e struggente dei suoi primi romanzi: qui il tono è più sobrio, asciutto, quasi giornalistico. Ma quello che manca in incanto lo recupera in umanità. Allende intreccia due storie lontane nel tempo ma vicine per dolore, fuga e resistenza: da una parte Samuel, un bambino ebreo mandato via dalla Vienna nazista con un treno della salvezza; dall’altra Anita, piccola e sola, che scappa con la mamma da un Salvador devastato dalla violenza.
Due infanzie interrotte, due mondi che si sfiorano nel presente dove l’America non è proprio per niente il paese delle meraviglie.

E qui arriva la stilettata. Perché ti accorgi che già tanti anni fa si separavano i bambini dalle famiglie per colpa della guerra. E intanto, ancora oggi, al confine tra America e Messico, succedono ancora le stesse scene strazianti: bambini che piangono, madri disperate, muri che non proteggono nessuno, solo dividono. Allende non lo grida, ma ce lo mette davanti, chiaro e tondo. E fa male. Ma serve.

Confesso che la storia di Anita mi ha toccata molto. Non conoscevo affatto la realtà salvadoregna e, in generale, trovo sempre incredibile come la letteratura riesca a farci scoprire angoli di mondo che non pensavamo neppure di voler conoscere.
Certo, a volte i personaggi sembrano un po’ troppo buoni o troppo funzionali, ma pazienza: il messaggio arriva forte e chiaro. E mi va bene così.

Alla fine, non sarà La casa degli spiriti, ma è un romanzo che merita: per cosa racconta, più che per come. E con Isabel ci siamo strette la mano di nuovo. Con un sorriso e magari un prossimo appuntamento.

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