Questo è stato il mio primo incontro con Donatella Di Pietrantonio, un’autrice di cui avevo sentito parlare molto. Ho deciso di leggerla proprio perché, essendo vincitrice del Premio Strega, volevo mettere alla prova il mio scetticismo verso i premi letterari e capire se la sua scrittura avrebbe saputo conquistarmi.
Con L’arminuta mi sono immersa in una storia che affronta uno dei temi più dolorosi e complessi da raccontare: la maternità, l’abbandono, i legami famigliari, il senso di appartenenza, la ricerca di un posto nel mondo. Una lettura scomoda, dura, impossibile da ignorare. Ci sono pagine che ti costringono a fermarti e a respirare, frasi che ti lasciano con un peso addosso. Forse proprio per questo, alla fine, mi sono ritrovata con un groviglio di emozioni difficili da ordinare: tristezza, disagio, empatia, ma anche una certa distanza.
E qui arriva la parte per me più difficile da spiegare. Nonostante la scrittura scorrevole ed evocativa, capace di creare in poche righe un’immagine nitida di luoghi, odori, gesti e silenzi, non mi sono sentita completamente coinvolta. Non so dare una motivazione precisa e forse non è nemmeno necessario trovarla. È stato un po’ come assaggiare una torta bellissima: perfetta da guardare, curata nei dettagli, elegante nella presentazione… ma con un gusto diverso da quello che ti aspetti.
Non è stata una delusione (anche se rimane il mio scetticismo verso i premi letterari). Penso sia piuttosto una questione di sintonie, di momenti giusti o sbagliati per incontrare un libro.
L’arminuta mi ha dato molto su cui riflettere, anche se non mi ha travolta emotivamente. E questo, per certi versi, mi incuriosisce ancora di più: quando un autore riesce a lasciarti così, con il desiderio di capire se sarà diverso la prossima volta, significa che vale la pena ritentare.
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